lunedì 29 giugno 2015

[Recensione] Pern 01 - Il Volo del Drago - Anne McCaffrey



Titolo: Il Volo del Drago
Serie: Pern vol. 01
Autore: 
Anne McCaffrey

Editore: Fanucci
N° Pagine: 368
ISBN-10: 
8834702182
Genere: fantasy/sci-fi









Pern è un lontano pianeta simile alla Terra, colonizzato dalla razza umana secoli fa. Con il passare del tempo i coloni dimenticarono le loro origini e la tecnologia della loro patria e vissero felicemente su Pern come contadini e allevatori in un'epoca che noi possiamo considerare basso medioevo. La vita era felice, finché nel cielo apparve la Stella Rossa, un pianeta che ogni 200 anni passa pericolosamente vicino a Pern e, durante il suo passaggio, strani esseri attraversano lo spazio siderale per approdare sul verdeggiante Pern. Questi alieni cadono dal cielo in lunghi filamenti che attaccano qualsiasi essere vivente per nutrirsi, rendendo la terra un deserto sterile. Gli abitanti di Pern decisero allora di difendersi dai Fili e cominciarono ad allevare degli animali nativi del pianeta, chiamati draghi per la loro somiglianza con i mitologici esseri. Nacque così l'ordine dei Dragonieri il cui compito è difendere Pern bruciando i Fili prima che tocchino terra.
Stavolta la Stella Rossa, a causa della sua orbita irregolare, ha atteso 400 anni prima del suo passaggio e in 400 anni l'ordine dei dragonieri si è ormai sfaldato ed è caduto in disgrazia. F'lar, l'unico dragoniere che riconosce la gravità della situazione di Pern e che da ancora peso alle antiche Cronache, è impegnato in una Cerca per trovare una nuova Dama del Wheyr (il Wheyr è la fortezza rocciosa dove risiedono i draghi e la Dama del Wheyr ne è la regina) e si imbatte in Lissa, figlia di un signorotto assassinato durante un attacco alla sua fortezza, la giovane è ora serva del conquistatore. Il carattere prorompente della ragazza attira il dragoniere, che la porta al Wheyr, insieme a tante altre ragazze e ragazzi, per sottoporla allo Schema di Apprendimento, cioè lo speciale legame che lega drago e dragoniere al momento della schiusa delle uova.
F'lar intanto si troverà nella difficile situazione di convincere il resto di Pern ad unire le forze contro l'imminente attacco dei Fili.




L'idea di base e la costruzione di Pern sono veramente ottimi ed originali.
Non il solito mondo fantasy, ma un pianeta lontano (non inventato, esiste davvero!), che ha ormai perso i contatti con la Terra raggiungendo una propria identità.
La parte fantasy è data dai draghi, non visti come antichi e misteriosi esseri mitologici, ma un tipo di lucertola autoctona, modificata geneticamente dai primi coloni per adattarla alla lotta contro i Fili.
Anche nel nemico di turno c'è originalità: i Fili non sono un Signore Oscuro che vole dominare tutto, ma parassiti non senzienti che si limitano a "cadere" e a "digerire" ogni organismo organico che incontrano.
La struttura politica di Pern, poi, è ben strutturata: ci sono i Signori delle fortezze che comandano sul loro territorio, poi gli Artigiani con le loro gilde indipendenti e infine il popolo di contadini e allevatori. L'ordine dei dragonieri è trattato a parte e la sua influenza varia in base all'epoca. Durante la caduta dei Fili ovviamente sono i dragonieri a comandare, mentre durante i periodi di pace, vengono spesso bistrattati e dimenticati.
Tutto questo è stato scritto nel lontano 1971 e, guardandoci in giro al giorno d'oggi, non si può non dare atto che molte idee dell'autrice sono state "riciclate" in altre opere (basti pensare all'imprinting tra drago e umano al momento della schiusa dell'uovo, copiato poi da Paolini in Eragon).
Peccato per la narrazione degli eventi e soprattutto per lo stile scarno della McCaffrey che rendono il libro al limite del leggibile. Il problema principale sono le descrizioni ridotte all'osso e spesso assenti, lasciando il lettore spaesato o con un senso di vuoto. Ad esempio per la maggior parte del libro si parla dei Fili, senza spiegare cosa sono, rendendo impossibile capire la loro pericolosità e l'essenzialità dei draghi. Oppure ad un certo punto un personaggio dice che sono passati tre anni dall'arrivo di Lissa, ma narrativamente non si ha nessuna evidenza di questo sbalzo temporale. Insomma, mancano proprio molte informazioni che renderebbero il libro molto più scorrevole e leggibile.
Procedendo con i difetti troviamo i due personaggi principali a dir poco lunatici e i secondari poco caratterizzati, mentre i dialoghi sono mal strutturati e capita di perdere il filo e non capire chi sta parlando.
Concludendo, un sacco di belle idee, pero raccontate male. Un vero peccato perché questo libro sarebbe potuto essere un capolavoro.



venerdì 19 giugno 2015

Conan - La Torre dell'Elefante - R.E. Howard

Vi presento un altro racconto di Howard che trovo molto bello. È uno dei primi scritti riguardanti Conan, qui lo troviamo giovane e alle prime armi mentre si cimenta nell'attività del ladro. La prima edizione risale al 1933.




La Torre dell'Elefante


Le torce brillavano di luce livida sulle orge del Maul, dove i ladri dell'Est, la notte, facevano sempre baldoria. Nel Maul potevano gozzovigliare e urlare a piacimento, perché la gente onesta evitava quel quartiere e le guardie, ben pagate con denaro poco pulito, non interferivano nei loro divertimenti. Lungo le strade tortuose e sconnesse, con i loro mucchi di rifiuti e le pozzanghere fangose, avanzavano barcollando chiassosi ubriachi che urlavano a squarciagola. Le lame scintillavano nell'ombra dove si alzavano stridule risate femminili e rumori di risse e di duelli. La luce delle torce filtrava sinistra dalle finestre rotte e dalle ampie porte spalancate: provenienti da queste porte, il puzzo di vino e di corpi sporchi e sudati, il rumore dei boccali e dei pugni calati fragorosamente sui rozzi tavoli, e i brani di canzoni oscene colpivano il passante come un pugno in pieno viso.
In una di queste tane, dove l'allegria rimbombava fino al soffitto macchiato di fumo, c'erano furfanti di ogni risma e cenciosi: furtivi tagliaborse, biechi rapitori di bambini, ladri dalle dita veloci, spavaldi bravacci con le loro amanti, stridule donne vestite con chiassosa eleganza. I furfanti originari del luogo erano la maggioranza: bruni Zamoriani dagli occhi scuri, che portavano pugnali alla cintura e l'insidia nel cuore. Ma c'erano anche i ribaldi di una dozzina di altre nazioni. C'era un gigantesco rinnegato hyperboreano, taciturno e pericoloso, con uno spadone assicurato al grande corpo snello: nel Maul, infatti, gli uomini giravano apertamente armati. C'era un falsario shemita dal naso aquilino e la ricciuta barba scura. C'era una ragazza brythuniana dagli occhi audaci, che sedeva sulle ginocchia di un fulvo gunderiano: un mercenario errante, disertore di qualche esercito sconfitto. E il grasso e volgare furfante, i cui motteggi osceni causavano tutti quegli scoppi di ilarità, era un rapitore di professione venuto dal lontano Koth per insegnare l'arte di rapir femmine agli Zamoriani, che fin dalla nascita conoscevano tale arte con una perfezione quale lui non poteva sperare di raggiungere mai. Interruppe la descrizione dei fascini di una vittima designata e cacciò il muso in un enorme boccale di birra schiumosa. Poi, soffiando la spuma dalle grasse labbra, disse:
«Per Bel, Dio di tutti i ladri, gli farò vedere io come si rubano le donne; la troverò al confine zamoriano prima dell'alba e ci sarà una carovana ad aspettarla. Trecento pezzi d'argento mi ha promesso un conte di Ophir per una sottile brythuniana di alto rango. Mi è toccato vagabondare per qualche settimana come un mendicante nelle città di frontiera per trovarne una che andasse bene. Ma che delizioso bagaglio!».
Lanciò un bacio bavoso nell'aria.
«Conosco certi signori di Shem che per lei darebbero il segreto della Torre dell'Elefante», disse, ritornando alla sua birra.
Un tocco sulla manica della tunica gli fece voltare la faccia, torva per l'interruzione. Un giovane alto e forte stava in piedi dietro di lui. L'individuo era fuori posto in quel covo, come un lupo grigio in mezzo a rognosi topi di fogna. L'umile tunica non riusciva a nascondere le forti linee slanciate del suo corpo possente, le ampie spalle, il petto massiccio, la vita sottile e le braccia vigorose. Aveva la pelle abbronzata dal sole di terre straniere, gli occhi azzurri e ardenti; un ciuffo arruffato di capelli neri coronava l'ampia fronte. Dalla cintura gli pendeva una spada, tenuta in un consunto fodero di cuoio.
Il kothiano si ritrasse involontariamente, perché l'uomo non apparteneva a nessuna delle razze civili che conosceva.
«Parlavi della Torre dell'Elefante», disse il nuovo venuto, pronunciando lo zamoriano con accento forestiero. «Ne ho sentite dire molte su questa Torre; qual è il suo segreto?»
Il comportamento del ragazzo non sembrava minaccioso, e il coraggio del kothiano era sostenuto dalla birra e dall'evidente approvazione dell'uditorio. Si gonfiò d'orgoglio.
«Il segreto della Torre dell'Elefante?», esclamò. «Ma ogni sciocco sa che Yara, il sacerdote, abita lì con il grande gioiello che la gente chiama il Cuore dell'Elefante e che è il segreto della sua magia.»
Il barbaro sembrò rimuginare la notizia per alcuni istanti.
«Ho visto la torre», disse. «È situata in un grande giardino sopra la città, circondato da alte mura. Non ho visto nessuna guardia. Le mura sono facilmente scavalcabili. Perché nessuno ha mai rubato quella gemma?»
Il kothiano rimase a bocca aperta di fronte a tanta ignoranza, poi scoppiò in una fragorosa risata di derisione a cui si unirono gli altri.
«Sentilo, questo infedele!», tuonò. «Vorrebbe rubare il segreto di Yara! Ascolta, amico», disse, volgendosi solennemente verso l'altro, «suppongo che tu sia un barbaro del Nord.»
«Sono un cimmero», rispose lo straniero, con un tono nient'affatto amichevole. La risposta e il tono significavano poco per il kothiano; nato in un regno che si trovava all'estremo Sud, ai confini dello Shem, conosceva solo vagamente le razze del Nord.
«Allora presta orecchio e impara il buon senso, ragazzo», disse, puntando il boccale verso l'arrogante giovane. «Sappi che nella Zamora, e specialmente in questa città, ci sono ladri più audaci che in qualsiasi altra parte del mondo, persino Koth. Se un mortale potesse impossessarsi della gemma, sta' certo che sarebbe già stata rubata. Parli di scalare le mura ma, una volta scavalcate, ti assicuro che vorresti ritornare velocemente indietro. Se di notte non ci sono sentinelle nel giardino, c'è una buona ragione... parlo di sentinelle umane. Ma al posto di guardia, nella parte bassa della torre, ci sono uomini armati, e anche se tu riuscissi a evitare ciò che passeggia nel giardino durante la notte, dovresti passare in mezzo ai soldati, perché la gemma è conservata in qualche punto in cima alla torre.»
«Ma se un uomo riuscisse a passare attraverso i giardini», rifletté il cimmero, «perché non potrebbe arrivare alla gemma entrando dalla cima della torre e così evitare i soldati?»
Di nuovo il kothiano lo fissò.
«Ma ascoltatelo!», urlò fragorosamente. «Il barbaro è un'aquila, capace di volare fino al parapetto ingioiellato della torre, che è alta appena quarantacinque metri, e che ha i fianchi arrotondati e levigati come vetro!»
Il cimmero si guardò torvamente in giro, imbarazzato per le risate ironiche che salutarono quella osservazione. Non gli parevano affatto divertenti, e lui era troppo fresco alla civiltà per coglierne il tono irridente. Gli uomini civili sono più scortesi dei selvaggi perché sanno di poter essere maleducati senza automaticamente ritrovarsi con la testa fracassata. Era perplesso, punto sul vivo e senza dubbio sarebbe scappato via, umiliato, se il kothiano non avesse deciso di pungolarlo ancora.
«Vieni, vieni!», gridò. «Di' a questi poveri amici, che fanno i ladri da prima che tu fossi generato, come vorresti rubare la gemma!»
«C'è sempre un modo, se il desiderio si accompagna al coraggio», rispose brevemente e seccamente il cimmero.
Il kothiano volle intenderla come un'offesa personale. La sua faccia si fece rossa di collera.
«Come!», ruggì. «Osi intrometterti nei nostri affari e dichiarare che siamo dei codardi? Vattene via, via dal mio cospetto!» E spinse violentemente il cimmero.
«Ti prendi gioco di me e poi mi metti anche le mani addosso?», sbottò il cimmero. Digrignando i denti, mentre l'ira saliva velocemente dentro di lui, rese la spinta con un colpo a mano aperta che risospinse il suo tormentatore contro il tavolo. La birra colò dal bordo del boccale e il kothiano urlò furiosamente, impugnando la spada.
«Cane infedele!», tuonò. «Questo ti costerà il cuore!»
Lampeggiarono i ferri e la folla ondeggiò selvaggiamente verso l'uscita. Nella lotta, i due buttarono a terra l'unica candela, e l'antro piombò nell'oscurità, rotta da un rumore di panche rovesciate, dallo scalpiccio degli avventori che fuggivano, da urla, da imprecazioni di persone capitombolate l'una sull'altra, e da un unico, stridente grido di agonia che tagliò quel fracasso come la lama di un coltello. Quando una candela fu riaccesa, la maggior parte degli ospiti se n'era andata dalle porte e dalle finestre rotte, e il resto era ammassato sotto una catasta di barilotti di vino e sotto i tavoli. Il barbaro non c'era più; nel centro della stanza rimaneva solo il corpo insanguinato del kothiano. Il cimmero, con l'infallibile istinto dei barbari, aveva ucciso il nemico nonostante il buio e la confusione.

Il cimmero si era ormai lasciato alle spalle le luci sinistre e l'orgia. Aveva abbandonato la sua tunica stracciata e camminava nella notte vestito solo della fascia che gli cingeva i fianchi e dei calzari. Si muoveva con la morbida naturalezza di una grande tigre, e i suoi muscoli d'acciaio si gonfiavano sotto la pelle bruna.
Entrò nella parte della città riservata ai templi. Tutt'attorno a lui, gli edifici sacri risplendevano candidi sotto la luce delle stelle: c'erano pilastri di marmo bianco come la neve, cupole d'oro e archi d'argento, asilo di una miriade di bizzarri Dèi zamoriani. Conan non si preoccupava di pensare a loro: sapeva che la religione zamoriana, come tutte le cose di un popolo civile, insediatosi da lungo tempo, era intricata e complessa, e aveva perso molto della primitiva sostanza, per finire in un labirinto di formule e rituali. Conan era rimasto accovacciato per ore nei cortili dei filosofi, ascoltando gli argomenti dei teologi e degli insegnanti, e ne era uscito con un ammasso di idee confuse, sicuro di una cosa soltanto: che erano tutti matti.
I suoi Dèi erano semplici e comprensibili; Crom era il loro capo e viveva su una grande montagna, da dove lanciava sciagure e morte. Era inutile invocare Crom, perché era un Dio tenebroso e selvaggio e odiava i deboli. Ma dava agli uomini, quando nascevano, il coraggio, la volontà e la forza di uccidere i nemici; questo, nella mente del cimmero, era quanto ci si poteva aspettare da un Dio.
I suoi sandali non facevano rumore sul lastrico scintillante. Nessuna guardia passava, dato che persino i ladri del Maul evitavano i templi; si sapeva che strane morti colpivano i profanatori. Davanti a lui, stagliata contro il cielo, apparve in lontananza la Torre dell'Elefante. Conan si chiese la ragione di quel nome. Nessuno sembrava saperlo. Lui non aveva mai visto un elefante, ma sapeva vagamente che si trattava di un animale mostruoso con una coda davanti e una didietro. Glielo aveva detto uno shemita errante che giurava di avere visto quelle bestie a migliaia nelle contrade degli Hyrkaniani; ma tutti sapevano quante menzogne raccontassero gli uomini di Shem. A ogni modo, non c'erano elefanti a Zamora.
La stele brillante della torre sorgeva gelida tra le stelle. Alla luce del sole essa splendeva in modo così radioso che pochi potevano sopportarne il luccichio accecante: la gente diceva che era fatta d'argento. Era rotonda, come un affusolato e perfetto cilindro, alta quarantacinque metri, e i suoi bordi, incrostati di gioielli, rifulgevano alla luce delle stelle. La torre si ergeva tra gli ondeggianti alberi esotici di un giardino che si trovava in alto rispetto al livello medio della città. Un muro chiudeva il giardino, e fuori del muro c'era un pendio, anche questo chiuso da un muro. Nessuna luce brillava; sembrava che la torre fosse sprovvista di finestre, almeno al di sopra del livello del muro più interno. Solo le gemme della cima splendevano fredde alla luce delle stelle.
I cespugli crescevano radi davanti al muro più basso, quello esterno. Il cimmero strisciò fino alla barriera e si fermò a misurarla con gli occhi. Era alta, ma lui avrebbe potuto spiccare un balzo e afferrarsi al bordo con le mani. Poi sarebbe stato un gioco da ragazzi saltare dall'altra parte. Non dubitava di poter superare così anche l'altro muro. Ma esitò al pensiero degli strani pericoli che lo attendevano all'interno. Quella gente gli appariva strana e misteriosa, non erano della sua razza, e nemmeno del suo stesso sangue come gli occidentali Brythuniani, Nemediani, Kothiani, e come quegli Aquiloniani della cui misteriosa civiltà aveva sentito parlare in passato. Il popolo di Zamora era molto antico e, da quanto aveva visto, assai malvagio.
Pensò a Yara, il Grande Sacerdote, che lanciava strani malefici dalla sua torre ingioiellata, e i capelli gli si rizzarono in capo ricordando quanto gli aveva narrato un paggio ubriaco: come Yara avesse riso in faccia a un principe nemico e gli avesse messo davanti una luccicante gemma malefica; i raggi accecanti scaturiti dall'infernale gioiello avevano avvolto il principe che, urlando, si era abbattuto al suolo; si era rimpicciolito fino a diventare un cumulo secco e annerito, che si era tramutato in un ragno nero. Il ragno era corso pazzamente per la stanza finché Yara non lo aveva schiacciato col tallone.
Yara usciva raramente dalla sua torre magica, e sempre per compiere malefici su qualche uomo o qualche contrada. Il re di Zamora lo temeva più della morte, ed era sempre ubriaco perché da sobrio non poteva sopportare la propria paura. Yara era molto vecchio: vecchio di secoli, dicevano gli uomini e aggiungevano che sarebbe vissuto per sempre grazie alla magia della gemma che la gente chiamava il Cuore dell'Elefante; la ragione di quel nome era ignota come quella del nome della fortezza, la Torre dell'Elefante.
Il cimmero, assorto in questi pensieri, si avvicinò velocemente alle ombre del muro. Qualcuno passava nel giardino, camminando con passi misurati. Il ragazzo sentì il tintinnio dell'acciaio. Dunque, c'era davvero una guardia su quel terreno. Il cimmero si aspettava di sentirla passare di nuovo, ma il silenzio calò sui misteriosi giardini.
Alla fine la curiosità ebbe il sopravvento. Saltando silenziosamente, Conan si afferrò al muro e con un solo braccio si issò in cima. Appiattito sull'ampia sporgenza, guardò il vasto spazio che separava i due muri. Nessun cespuglio cresceva vicino a lui, ma ce n'erano alcuni, accuratamente potati, vicino al muro interno. La luce delle stelle illuminava l'uniforme terreno erboso, e da qualche parte una fontana gorgogliava.
Il cimmero si calò cautamente all'interno e brandì la spada guardandosi attorno. Stare così indifeso sotto la cruda luce delle stelle lo innervosiva, come succede a tutti i selvaggi: si mosse silenziosamente lungo la curva del muro, tenendosi nell'ombra, fino a raggiungere l'altezza del cespuglio che aveva visto in precedenza. Poi corse velocemente verso di esso, accovacciandovisi sotto, e quasi inciampò in una forma che giaceva raggomitolata vicino ai bordi del cespuglio.
Una rapida occhiata a destra e a sinistra gli mostrò che non c'erano nemici, almeno in vista, e si chinò a guardare. I suoi occhi, acuti persino alla pallida luce delle stelle, videro il corpo robusto di un uomo rivestito dell'armatura argentea e dell'elmo con cresta della Guardia Reale zamoriana. Uno scudo e una lancia giacevano accanto al cadavere; dopo averlo esaminato per un istante, Conan si accorse che era stato strangolato. Il barbaro lanciò un'occhiata inquieta attorno. Capì che quell'uomo doveva essere la guardia che aveva udito passare prima di scavalcare il muro. Erano trascorsi pochi minuti, eppure in quell'intervallo mani senza nome erano uscite dal buio e avevano soffocato la vita del soldato.

Aguzzando gli occhi nell'oscurità, colse il guizzo di un movimento tra gli arbusti vicini al muro. Corse laggiù, stringendo la spada. Non fece più rumore di una pantera acquattata furtivamente nella notte, eppure l'uomo che stava camminando lo udì. Il cimmero ebbe la rapida visione di una massa addossata al muro e provò sollievo al pensiero che si trattava di una forma umana; poi l'uomo si girò velocemente, traendo un respiro rotto dal panico, accennò a tuffarsi verso Conan, con le braccia tese, ma indietreggiò quando scorse la sua spada illuminata dalle stelle. Per un istante pieno di tensione nessuno dei due parlò, tenendosi pronto a tutto.
«Tu non sei un soldato», sibilò lo straniero, alla fine. «Sei un ladro come me.»
«E tu chi sei?», chiese il cimmero con un bisbiglio sospettoso.
«Taurus di Nemedia.»
Il cimmero abbassò la spada.
«Ho sentito parlare di te. Gli uomini ti chiamano il Principe dei Ladri.»
Gli rispose una bassa risata. Taurus era alto quanto il cimmero e più pesante; era corpulento e grasso, ma ogni suo movimento suggeriva l'idea di un indefinibile e dinamico magnetismo che si rifletteva nei suoi occhi acuti, scintillanti di vigore persino alla luce delle stelle. Era scalzo e trasportava in un rotolo ciò che sembrava essere una corda sottile ma resistente, annodata a intervalli regolari.
«Chi sei?», mormorò Taurus.
«Conan, un cimmero», rispose l'altro. «Sono venuto a cercare il modo di rubare il gioiello di Yara: quello che gli uomini chiamano il Cuore dell'Elefante.»
Conan vide l'uomo scuotersi per le risate, ma non erano risate di derisione.
«Per Bel, Dio dei Ladri!», sibilò Taurus. «Pensavo di avere solo io il coraggio di intraprendere questo furto. Gli Zamoriani dicono di chiamarsi ladri, bah! Conan, mi piace la tua fierezza. Non ho mai diviso un'avventura con altri; ma, per Bel, se vuoi, cercheremo insieme la gemma.»
«Allora, anche tu cerchi la gemma?»
«E che altro? Da mesi sto preparando i miei piani; ma tu, penso, hai agito sotto l'impulso del momento, amico mio.»
«Hai ucciso tu il soldato?»
«Naturalmente. Sono scivolato sopra il muro quando la guardia era sull'altro lato del giardino. Mi sono nascosto nei cespugli; mi ha sentito o ha creduto di aver sentito qualcosa. Quando è arrivato, non c'era altro da fare che buttarglisi addosso, afferrargli il collo e soffocare quell'idiota. Era, come la maggior parte degli uomini, mezzo cieco al buio. Un buon ladro deve avere gli occhi di un gatto.»
«Hai fatto un solo errore», disse Conan.
Gli occhi di Taurus brillarono di rabbia.
«Io? Un errore? Impossibile.»
«Avresti dovuto nascondere il corpo tra i cespugli.»
«Disse il novizio al maestro. Non cambieranno la guardia prima di mezzanotte. Se qualcuno, vista la sua assenza, lo cercasse e trovasse il suo corpo, volerebbe da Yara a urlargli la notizia, dandoci così il tempo di scappare. Ma, se non lo trovassero, batterebbero tutti i cespugli, prendendoci come topi in trappola.»
«Hai ragione», convenne Conan.
«Adesso ascoltami. Stiamo sprecando tempo in questa maledetta discussione. Non ci sono guardie nel giardino interno, nessuna guardia umana intendo, sebbene ci siano sentinelle più mortali. È la loro presenza che mi ha fermato così a lungo, ma alla fine ho scoperto il modo di evitarle.»
«E i soldati nella parte bassa della torre?»
«Il vecchio Yara abita nelle camere superiori. Dall'alto andremo e dall'alto ritorneremo, spero. Non chiedermi come. Ho trovato il modo. Passeremo dalla cima della torre e strangoleremo il vecchio Yara prima che possa lanciare uno dei suoi infernali incantesimi su di noi. Tenteremo, almeno; c'è la possibilità che ci tramuti in ragni o in rospi, certo, ma c'è la possibilità di acquisire tutte le ricchezze e tutti i poteri del mondo. Un buon ladro deve saper scegliere.»
«Farò tutto quello che un uomo può fare», disse Conan slacciandosi i sandali.
«Allora seguimi.» E, voltandosi, Taurus spiccò un balzo, si aggrappò al muro e si tirò su. L'agilità di quell'uomo era sorprendente, considerata la sua mole; sembrava quasi volare sul bordo del muro. Conan lo seguì: appiattiti sulla sporgenza, discussero con cauti bisbigli.
«Non vedo luci», borbottò Conan. La parte bassa della torre appariva uguale alla parte visibile dall'esterno: un cilindro perfetto e splendente, senza nessuna apertura.
«Ci sono delle finestre e delle porte costruite con molta intelligenza», rispose Taurus, «ma sono chiuse.I soldati respirano l'aria che viene dai piani superiori.»
Il giardino era un vago insieme di ombre dove i soffici cespugli e i bassi alberi frondosi ondeggiavano oscuramente alla luce delle stelle. L'animo circospetto di Conan avvertì un'aura di minaccia che incombeva su di esso. Avvertì come lo sguardo truce e bruciante di occhi inosservati e colse un sottile sentore che istintivamente gli vellicò il naso, come accade a un cane da caccia colpito dall'odore di un antico nemico.
«Seguimi», mormorò Taurus; «stai dietro di me, se ci tieni alla vita.»
Prendendo dalla cintura quello che sembrava un tubo di rame, il nemediano si lasciò cadere lievemente sul terreno erboso oltre il muro. Conan gli fu dietro, la spada pronta, ma Taurus lo spinse contro il muro, non mostrando alcuna intenzione di proseguire. Il suo atteggiamento tradiva un'aspettativa piena di tensione e lo sguardo, come quello di Conan, era fissato sull'ombrosa massa di cespugli che si stagliavano alcuni metri più avanti. Oscillavano, sebbene la brezza fosse cessata. Poi due grandi occhi divamparono nell'ombra ondeggiante e dietro di loro altre scintille di fuoco brillarono nell'oscurità.
«Leoni!», bisbigliò Conan.
«Sì. Di giorno sono tenuti in caverne sotto la torre. Ecco perché non ci sono guardie nel giardino.»
Conan contò gli occhi, rapidamente.
«Ne vedo cinque, ma può darsi che ce ne siano altri dietro ai cespugli; ci attaccheranno tra un attimo.»
«Zitto!», bisbigliò Taurus e si scostò dal muro, cauto come se stesse camminando sulla lama di un rasoio, sollevando il sottile tubo. Sordi brontolii si levarono dall'ombra e gli occhi lucenti si mossero in avanti. Conan avvertiva la presenza delle loro mascelle bavose e delle folte code sferzanti i fianchi fulvi. La tensione crebbe nell'aria: il cimmero impugnò la spada aspettando la carica e l'urto irresistibile di quei giganteschi corpi. Poi Taurus portò alle labbra l'imboccatura del tubo e vi soffiò dentro con forza. Un lungo getto di polvere giallastra uscì dall'estremità del tubo e si gonfiò immediatamente, formando una sottile nuvola giallo-verde che si posò sui cespugli, nascondendo quegli occhi brillanti.
Taurus ritornò velocemente verso il muro. Conan lo fissava senza capire. La sottile nuvola celava la macchia di cespugli: da essa non veniva alcun suono.
«Che cos'è quella nebbia?», chiese il cimmero con inquietudine.
«Morte!», sibilò il nemediano. «Se si alza il vento e la rimanda a noi, dobbiamo saltare dietro il muro. Ma no, il vento tace e la nuvola si sta dissipando. Aspetta finché non sia completamente scomparsa. Respirarla significa morire.»
Infatti restavano sospesi nell'aria solo alcuni spettrali frammenti gialli; poi anche quelli sparirono e Taurus fece cenno al suo compagno di proseguire. Si avvicinarono furtivamente ai cespugli e Conan rimase senza fiato. Cinque grandi forme fulve giacevano nell'ombra: il fuoco dei loro occhi brillanti era spento per sempre. Un sentore dolce e nauseabondo persisteva nell'aria.
«Sono morti senza un suono!», bisbigliò il cimmero. «Taurus, che cos'è quella polvere?»
«È polline di Loto Nero, i cui germogli s'agitano nelle perdute giungle del Khitai, abitate solo dai sacerdoti di Yun dal cranio giallo. Chiunque li annusi muore all'istante.»
Conan si inginocchiò tra le gigantesche forme, accertandosi che i leoni fossero ormai davvero incapaci di far del male. Scosse la testa; la magia delle terre esotiche era misteriosa e terribile per un barbaro del Nord.
«Perché non ammazzi allo stesso modo i soldati della torre?», chiese.
«Perché era tutta la polvere che possedevo. Per ottenerla ho dovuto compiere un'impresa sufficiente a farmi diventare famoso tra tutti i ladri del mondo. L'ho rubata da una carovana in partenza per la Stygia togliendo il sacco di rete d'oro che la conteneva dalle spire di un grande serpente che la sorvegliava, senza svegliarlo. Ma vieni, in nome di Bel! Dobbiamo sprecare la notte in discussioni?»
Scivolarono attraverso i cespugli sino alla brillante base della torre e qui Taurus, con un cenno che ingiungeva il silenzio, srotolò la sua corda annodata, che a un capo portava un robusto uncino d'acciaio. Conan capì ciò che voleva fare e non pose domande, mentre il nemediano afferrava la corda nei pressi dell'uncino e cominciava a farla ruotare sopra la propria testa. Conan poggiò l'orecchio sul muro levigato e ascoltò, ma non udì nulla. Evidentemente i soldati all'interno non sospettavano la presenza degli intrusi, i quali non avevano fatto più rumore del vento che soffia attraverso gli alberi. Ma uno strano nervosismo aveva colto il barbaro; forse era l'odore dei leoni che ancora aleggiava intorno.

Taurus lanciò la corda con un movimento armonioso e leggero. Il gancio descrisse una curva avanti e indietro in modo curioso, difficile da descrivere, e svanì oltre il bordo ingioiellato. Fece presa, poiché resistette a un cauto strattone: anche gli strattoni robusti non lo smossero.
«Successo al primo lancio», mormorò Taurus. «Io...»
Fu solo il suo istinto selvaggio a far voltare improvvisamente Conan: la morte che incombeva su di loro non aveva fatto rumore. Una fuggevole occhiata svelò al cimmero la forma bruna e gigantesca, eretta contro le stelle, torreggiante su di lui per sferrare il colpo mortale. Nessun uomo civile avrebbe potuto muoversi così velocemente come il barbaro. La sua spada scattò nella luce stellata con tutta la forza dei suoi nervi e muscoli disperati, e l'uomo e la bestia caddero insieme.
Imprecando incoerentemente tra sé, Taurus si chinò su quel groviglio e vide che il suo compagno si sforzava di togliersi di dosso l'enorme peso che giaceva abbandonato su di lui. Un'occhiata mostrò all'allarmato nemediano che il leone era morto, con il cranio spaccato in due. Afferrò la carcassa, e Conan, con il suo aiuto, la spinse di lato e la scavalcò, tenendo sempre stretta la spada gocciolante.
«Sei ferito?», ansimò Taurus, ancora sbalordito dalla fenomenale velocità con cui si era svolto l'incidente.
«Per Crom, no!», rispose il barbaro. «Ma mai, in una vita tutt'altro che tranquilla, ci sono andato così vicino. Perché la maledetta bestia non ha ruggito prima di attaccare?»
«Tutto è strano in questo giardino», disse Taurus.«I leoni colpiscono silenziosamente e così fanno le altre creature di morte. Ma ora vieni, hai fatto soltanto un lieve rumore nell'ucciderlo, ma i soldati potrebbero averlo udito, se non sono addormentati o ubriachi. Quella bestia si trovava in qualche altra parte del giardino ed è sfuggita al polline dei fiori mortali, ma sicuramente non ce ne sono altre. Dobbiamo arrampicarci con questa corda; non c'è bisogno di chiedere a un cimmero se può farlo.»
«Se sopporta il mio peso...», grugnì Conan, pulendo la spada sull'erba.
«Sopporta tre volte il mio, di peso», rispose Taurus. «È stata tessuta con capelli di donne morte; li ho rubati dalle loro tombe a mezzanotte e, per renderli forti, li ho immersi nel succo mortale degli alberi upa. Andrò io per primo, tu seguimi subito.»
Il nemediano afferrò saldamente la fune e, piegato un ginocchio attorno ad essa, cominciò a salire; salì come un gatto, smentendo la goffaggine della sua mole. Poi salì il cimmero. La corda oscillava e girava su se stessa, ma gli scalatori non portavano pesi; ed entrambi avevano già affrontato scalate peggiori. Il bordo ingioiellato brillava alto sopra di loro: sporgeva all'infuori, cosicché la corda pendeva a circa un piede di distanza dalla torre, e ciò facilitava l'ascesa.
Salirono silenziosamente, mentre le luci della città si allargavano sempre di più, sotto di loro, e le stelle sulla loro testa erano sempre più offuscate dal luccichio dei gioielli dell'orlo. Taurus allungò una mano, afferrò il bordo e lo scavalcò. Conan si fermò un attimo a contemplare, affascinato, la luce gelida dei gioielli che abbacinava i suoi occhi: diamanti, rubini, smeraldi, zaffiri, turchesi, pietre di luna erano fitti come stelle, incastonati nell'argento splendente. A distanza i loro differenti bagliori sembravano fondersi in un pulsante riverbero bianco, ma ora, guardati così da vicino, brillavano con le tinte e le luci di un arcobaleno, ipnotizzandolo con i loro scintillii.
«C'è una fortuna favolosa qui, Taurus», bisbigliò, ma il nemediano rispose con impazienza: «Vieni! Se ci impossessiamo del Cuore, sarà tutto nostro».
Conan saltò sul muro risplendente. La cima della torre era a meno di un metro al di sotto dell'orlo gemmato. Questo era largo, fatto di un qualche materiale di un intenso azzurro, percorso d'oro che rifletteva la luce delle stelle: il tutto appariva come un enorme zaffiro chiazzato di polvere d'oro. Davanti al punto da cui erano saliti, sembrava esserci una specie di camera costruita sul tetto. Era della stessa sostanza argentea che rivestiva le mura della torre, adornata con disegni composti di gemme più piccole; l'unica porta era d'oro, con la superficie scolpita con un motivo a scaglie; era incrostata di gioielli che brillavano come ghiaccio.
Conan gettò un'occhiata al pulsante oceano di luci che risplendeva sotto di loro e guardò Taurus. Il nemediano, ritirata la corda, stava riavvolgendola. Mostrò a Conan dove l'uncino si era impigliato; una frazione della punta era affondata sotto un grande gioiello lucente, sul lato interno del bordo.
«La fortuna ci ha sorriso di nuovo», mormorò. «Si direbbe che il nostro peso per poco non abbia strappato via la pietra. Seguimi; i veri rischi della nostra avventura cominciano adesso. Siamo nella tana del serpente e non sappiamo dove si nasconde.»

Camminando come tigri, scivolarono sul pavimento e si arrestarono davanti alla porta scintillante. Con mano cauta e abile Taurus provò ad aprirla. Non fece resistenza ed essi guardarono dentro, pronti a tutto. Da dietro la spalla del nemediano, Conan scorse una camera ricoperta di grandi gioielli bianchi che la riempivano di luce e che parevano costituire l'unica illuminazione. Sembrava vuota di vita.
«Prima di tagliarci la possibilità di una ritirata», bisbigliò Taurus, «vai sul bordo e osserva sotto, anche dalle altre parti; se vedi qualche soldato muoversi nel giardino o altre cose sospette, torna a dirmelo. Ti aspetterò dentro la camera.»
Conan, poco convinto della necessità della cosa, fu assalito da un vago sospetto, ma fece come Taurus aveva detto. Quando si girò, il nemediano scivolò attraverso la porta e la richiuse dietro di sé. Conan strisciò fino al bordo e, non notando alcun movimento sospetto tra il vago, ondeggiante mare di fronde, ritornò al punto di partenza. Quando giunse alla porta, improvvisamente sentì venire dall'interno della stanza uno strano grido.
Il cimmero balzò in avanti, con i nervi tesi; la splendente porta ruotò e Taurus apparve, incorniciato dal freddo bagliore retrostante. Oscillò, con le labbra aperte, ma solo un sordo rantolo gli uscì dalla strozza. Tenendosi alla porta d'oro, barcollò, poi cadde lungo disteso sulla terrazza, con le mani strette alla gola. La porta si richiuse dietro di lui.
Conan, acquattato come una pantera in agguato, non aveva scorto nulla nella stanza, dietro il corpo ferito del nemediano, nel breve istante in cui la porta era rimasta parzialmente aperta: forse l'impressione che un'ombra si fosse spostata rapidamente sul lucido pavimento non era stata che uno scherzo della luce. Nessuno seguì Taurus sulla terrazza, e Conan si chinò sull'uomo.
Il nemediano aveva gli occhi dilatati e vitrei come se un terribile stupore si fosse impossessato di lui. Con le mani si teneva la gola, e le sue labbra emettevano bava e suoni gutturali; poi, improvvisamente, si irrigidì, e lo sbalordito cimmero capì che era morto. E intuì che Taurus era morto senza sapere che genere di morte fosse piombata su di lui. Confuso, Conan fissò l'enigmatica porta d'oro. In quella stanza vuota, tra le pareti scintillanti di gioielli, la morte era scesa sul Principe dei Ladri, leggera e misteriosa come la morte che lui aveva dispensato ai leoni nel giardino sottostante.
Con precauzione il barbaro fece scorrere le mani sopra il corpo seminudo, alla ricerca di una traccia di violenza. Ma gli unici segni di violenza stavano tra le spalle, in alto vicino alla base del collo robusto: tre piccole ferite che sembravano inferte da chiodi penetrati profondamente nella carne e poi ritirati. Ibordi di queste ferite erano neri e un debole sentore di putrefazione emanava da esse. Dardi velenosi? Così pensò Conan, ma in quel caso i dardi sarebbero stati ancora immersi nelle ferite.
Scivolò cautamente verso la porta d'oro, la spinse fino ad aprirla e guardò dentro. La camera era vuota, bagnata dalla fredda, pulsante luce di miriadi di gioielli. Proprio al centro del soffitto notò, senza però capire cos'era, un curioso disegno nero e di forma ottagonale, recante al centro quattro gemme splendenti di una rossa fiamma che contrastava con il bianco luccichio degli altri gioielli. In fondo alla stanza c'era un'altra porta, simile a quella dove lui si trovava, sprovvista però del disegno a scaglie. Era da quella porta che la morte era arrivata? E dopo aver colpito la sua vittima si era ritirata per lo stesso cammino?

Dopo aver chiuso la porta dietro di sé, il cimmero avanzò nella camera. I suoi piedi scalzi non facevano alcun rumore sul pavimento di cristallo. Non c'erano sedie o tavoli nella camera, solo tre o quattro divani di seta, ricamati d'oro e lavorati con strani disegni a volute, e molte casse di mogano dai bordi d'argento. Alcune erano chiuse con pesanti lucchetti d'oro; altre erano aperte, con i coperchi scolpiti ripiegati all'indietro, e svelavano il loro contenuto di gioielli, ammassati in una confusione di splendori davanti agli occhi sbalorditi del cimmero. Conan imprecò tra i denti; aveva visto più ricchezze in quella notte di quante pensava esistessero al mondo e la sua vertigine crebbe al pensiero di quanto potesse valere il gioiello che egli cercava.
Era al centro della stanza, ora, e avanzava curvo, sporgendo avanti la testa con precauzione, con la spada dinanzi a sé, quando di nuovo la morte si abbatté silenziosamente su di lui. Un'ombra volante che sfrecciava sul chiaro pavimento fu l'unico avvertimento, e fu l'istintivo balzo di lato che Conan compì a salvargli la vita. Ebbe la rapida visione di un orrore peloso e nero che si agitava dietro di lui, e di un rumore di zanne schiumanti: qualcosa schizzò sulla sua spalla nuda e subito si mise a bruciare come gocce di un liquido infernale. Tirandosi indietro, con la spada in alto, vide l'orrore toccare il pavimento, ruotare e correre velocemente verso di lui con una rapidità spaventosa; era un gigantesco ragno nero, grande come lo si potrebbe vedere solo in un incubo notturno.
Era largo quanto un maiale, e le otto zampe spesse e pelose guidavano quel corpo da orco sul pavimento a un'andatura precipitosa; quattro occhi, infernali e brillanti, splendevano di una orribile intelligenza, e le zanne stillavano veleno. Dal bruciore della spalla, che era stata toccata solo da qualche goccia quando la bestia lo aveva mancato, Conan capì che quel veleno dava una morte rapida e silenziosa. Ecco l'assassino che si era calato, mediante un filo della sua tela, dal buco in mezzo al soffitto per piombare sul collo del nemediano. Erano stati pazzi a pensare che la stanza alta non fosse ben guardata come quella inferiore!
Questi pensieri attraversarono brevemente la mente di Conan mentre il mostro attaccava. Il barbaro fece un balzo poderoso, e il ragno passò sotto di lui, ruotò e lo attaccò di nuovo. Questa volta, Conan gli sfuggì con un salto laterale, e cercò di restituire il colpo. Con la spada gli staccò una delle zampe pelose, e si mise di nuovo in salvo mentre la mostruosità faceva uno scarto improvviso, battendo rabbiosamente le zanne. Ma la creatura non continuò l'inseguimento; si voltò e abbandonò improvvisamente il pavimento cristallino, arrampicandosi lungo il muro fino al soffitto, dove stette rannicchiata per un istante, fissandolo con i malvagi occhietti rossi. Poi, senza alcun preavviso, si lanciò nel vuoto, trascinando con sé un filo di vischiosa sostanza grigia.
Conan indietreggiò per evitare l'urto di quel corpo, poi si piegò freneticamente, giusto in tempo per sfuggire alla trappola di quella tela volante. Capì ciò che voleva fare il mostro e si precipitò verso la porta, ma il ragno fu più veloce e un filamento appiccicoso gettato attraverso la larghezza della porta lo fece prigioniero. Non tentò nemmeno di tagliarlo con la spada; capiva che la sostanza avrebbe aderito alla lama; e, prima di poterla ripulire, la bestia gli avrebbe affondato le zanne nella schiena.
Poi iniziò una disperata partita: l'ingegno e la prontezza dell'uomo si misuravano con la velenosa astuzia e la velocità del gigantesco ragno. Non si muoveva più sul pavimento in una carica diretta, né si lanciava contro di lui. Correva invece sul soffitto e sui muri, tentando di intrappolarlo nei lunghi cappi di vischiosa tela grigia, che lanciava con infernale accuratezza. Quei fili erano spessi come corde, e Conan capiva che una volta attorcigliati su di lui, la sua disperata forza non sarebbe stata sufficiente per liberarlo dalle spire prima che il mostro lo colpisse.
La stanza, percorsa dall'infernale danza, era immersa nel silenzio e risuonava solo del veloce ansimare dell'uomo, del leggero strascicare dei suoi piedi nudi sul pavimento risplendente e del battito delle zanne del mostro. Fili grigi giacevano attorcigliati sul pavimento, annodati lungo il muro, coprivano le ceste ingioiellate e i divani coperti di seta e pendevano in tetri festoni dal soffitto gemmato. La velocità dei suoi occhi e dei suoi muscoli aveva finora salvato Conan, sebbene i lacci vischiosi fossero passati così vicini a lui da sfiorargli la pelle nuda. Non avrebbe potuto evitarli ancora a lungo; non doveva stare soltanto attento alle funi lanciate dal soffitto, ma anche tenere d'occhio il pavimento per timore di inciampare sui filamenti che vi giacevano. Presto o tardi un cappio gommoso si sarebbe attorcigliato su di lui, come un pitone, ed egli, avvolto in un bozzolo, sarebbe stato alla mercé del mostro.
Il ragno attraversò il pavimento della stanza, con la grigia corda ondeggiante dietro di sé. Conan superò con un grande balzo uno dei letti, ma il mostro, con una veloce giravolta, corse sul muro: la tela, muovendosi sul pavimento come una cosa viva, avviluppò la caviglia di Conan. Il barbaro cadde e attutì con le mani la caduta, poi cominciò a dare frenetici strattoni alla tela che lo serrava come le spire di un serpente. Il diavolo peloso stava correndo giù dal muro per completare la cattura. Spinto dal parossismo, Conan afferrò una cassa di gioielli e la scagliò con tutta la sua forza. Il pesante oggetto colpì in pieno l'attaccatura delle zampe nere e si fracassò contro il muro con uno scricchiolio disgustoso e soffocato. Sangue e un umore verdastro colarono dalla massa fracassata che cadde al suolo insieme alla cassa sfondata. Il corpo schiacciato giacque nel fiammeggiante caos di gioielli sparsi su di esso; le zampe pelose si muovevano vanamente e i rossi occhi morenti balenavano tra le gemme scintillanti.
Conan si guardò attorno: nessun nuovo orrore comparve, e cominciò a liberarsi dalla tela. La sostanza aderiva tenacemente alla gamba e alla mano, ma alla fine fu libero e, ripresa la spada, si aprì il cammino tra i grigi filamenti e raggiunse la porta più interna. Quali orrori vi fossero al di là, non lo sapeva. Il sangue gli ribolliva, e Conan, giacché si era spinto tanto in avanti e aveva superato un così grande pericolo, era ormai deciso a proseguire fino alla fine della sua impresa, qualunque fosse tale fine. Aveva l'impressione che il gioiello che cercava non si trovasse tra quelli sparsi senza cura nella splendente camera.
Strappati via i fili che bloccavano la porta interna, scoprì che anche questa, come l'altra, non era chiusa a chiave. Si domandò se i soldati che stavano nella stanza alla base della torre ignorassero ancora la sua presenza. Si trovava molto in alto sopra le loro teste e, se si doveva credere ai racconti, quei soldati erano abituati agli strani rumori della torre, ai suoni sinistri e agli urli di agonia e di orrore.
Pensava a Yara e non si sentiva del tutto a suo agio mentre apriva la porta d'oro. Ma scorse soltanto una rampa di scalini d'argento, debolmente illuminati da qualche sorgente luminosa nascosta. Scese silenziosamente, stringendo la spada. Non udiva nessun rumore; arrivò infine a una porta d'avorio, ornata di eliotropie. Si mise in ascolto, ma nessun suono proveniva dall'interno; solo leggeri fili di fumo uscivano pigramente da sotto la porta, portando con sé un curioso odore esotico ignoto al cimmero. Sotto di lui i gradini d'argento serpeggiavano per svanire nell'ombra, e da quel pozzo buio non saliva alcun suono; ebbe la strana sensazione di essere solo in una torre popolata unicamente da fantasmi e spettri.
Spinse con cautela la porta d'avorio e scivolò silenziosamente all'interno. Si fermò sulla soglia luccicante guardandosi intorno come un lupo in terre ignote, pronto a combattere o fuggire all'istante. Stava osservando una grande camera con un tetto d'oro a cupola; le pareti erano di giada verde, il pavimento d'avorio era parzialmente coperto di spessi tappeti. Il fumo e l'esotico profumo dell'incenso si alzavano da un braciere posto su un tripode d'oro: dietro di questo stava un idolo, su una specie di divano di marmo. Conan rimase di sasso: l'immagine aveva corpo di uomo, nudo e di colore verde, ma la testa era un incubo e una follia. Troppo grande rispetto al corpo, non possedeva attributi umani. Conan fissò le larghe orecchie svasate, la proboscide arrotolata, e ai suoi lati, le bianche zanne dalla punta ornata di una sfera d'oro. Gli occhi erano chiusi come se dormisse.
Era questa dunque la ragione del nome, Torre dell'Elefante: la testa di quella statua era simile alle bestie descritte dallo shemita. E l'idolo era il Dio di Yara; e la gemma doveva trovarsi nascosta nell'idolo. Altrimenti, perché chiamarla il Cuore dell'Elefante?
Quando Conan entrò e il suo sguardo fissò l'idolo immobile, gli occhi della statua si spalancarono! Il cimmero rabbrividì. Non era un simulacro, era qualcosa di vivo, e lui era intrappolato nella sua camera!
Il fatto che Conan non esplodesse in un accesso di frenesia omicida dà la misura dell'orrore che lo aveva paralizzato. Un uomo civile che si fosse trovato nelle sue condizioni avrebbe trovato un discutibile rifugio nella convinzione di essere pazzo; ma al cimmero non venne in mente di dubitare dei propri sensi. Capiva di essere faccia a faccia con un Demone del mondo primevo, e questa consapevolezza lo aveva spogliato di ogni sua capacità, lasciandogli solo la facoltà di guardare.
La proboscide di quell'orrore si era sollevata e sembrava cercare nell'aria, gli occhi di topazio fissavano senza vedere, e Conan capì che il mostro era cieco. La comprensione sciolse i suoi nervi ghiacciati, e cominciò a indietreggiare silenziosamente verso la porta. Ma la creatura lo sentì. La proboscide sensibile si allungò verso di lui e Conan s'impietrì nuovamente per l'orrore quando l'essere parlò con una strana voce farfugliante che non cambiava mai di tono o di timbro. Conan comprese che quelle mascelle non erano fatte per parlare un linguaggio umano.
«Chi c'è? Sei venuto di nuovo a torturarmi, Yara? Non avrai mai finito? Oh, Yag-kosha, non ci sarà mai fine alla tua sofferenza?»
Le lacrime presero a scendere da quegli occhi ciechi, e lo sguardo di Conan percorse le membra stese sul divano di marmo. E vide che il mostro non si sarebbe alzato per attaccarlo. Vide i segni della ruota, e i marchi brucianti del fuoco e, sebbene il suo animo fosse duro, rimase senza fiato nel vedere i resti straziati di ciò che un tempo, così gli suggeriva la ragione, erano state membra lisce come le sue. E immediatamente tutta la paura e la repulsione scomparvero, per lasciare il posto a una grande pietà. Che cosa fosse quel mostro, Conan non sapeva, ma le testimonianze delle sue sofferenze erano così terribili e palesi che una strana tristezza accorata si impossessò del cimmero, senza che neppure lui ne sapesse il perché. Sentì solo che si trovava di fronte a una tragedia cosmica e avvertì una contrazione di vergogna, come se la colpa di un'intera razza fosse ricaduta su di lui.
«Non sono Yara», disse. «Sono solo un ladro. Non voglio farti del male.»
«Avvicinati, di modo che ti possa toccare», balbettò la creatura, e Conan le andò vicino senza paura, con la spada dimenticata nella mano. La proboscide sensibile avanzò e si mosse a tentoni sulla sua faccia e sulle spalle, come fanno i ciechi con la mano: il tocco era leggero come la carezza di una fanciulla.
«Tu non appartieni all'infernale razza di Yara», sospirò la creatura. «L'ardore puro e nitido delle solitudini ti contrassegna. Conosco il tuo popolo dal tempo antico, da quando aveva un altro nome, molti, molti secoli fa, quando un altro mondo sollevava le sue guglie ingioiellate verso le stelle. C'è del sangue sulle tue dita.»
«Un ragno nella camera di sopra e un leone in giardino», mormorò Conan.
«Hai ucciso anche un uomo questa notte», rispose l'altro. «E c'è morte nella torre. Lo sento; lo so.»
«Sì», mormorò Conan. «Il principe di tutti i ladri giace lassù, ucciso dal morso di un mostro repellente.»
«Sì, sì.» La strana voce non umana si alzò in una specie di cantilena soffocata. «Un assassino nella taverna e uno sul tetto, lo so; lo sento. E il terzo compirà una magia che nemmeno Yara immagina, oh, la magia della liberazione, per i verdi Dèi di Yag!»
Le lacrime scorrevano di nuovo mentre quel corpo torturato veniva scosso dalla stretta di differenti emozioni. Conan guardava, stupefatto.
Poi le convulsioni cessarono; i morbidi occhi senza vista erano girati verso il cimmero, e la proboscide faceva dei segnali.
«O uomo, ascolta», disse lo strano essere. «Ti appaio immondo e mostruoso, vero? No, non rispondere; lo so. Ma tu mi sembreresti altrettanto strano se potessi vederti. Ci sono molti mondi oltre questa Terra, e la vita prende molte forme. Non sono né un Dio, né un Demone, ma sono fatto di sangue e carne come te, sebbene la sostanza differisca in parte e la forma possa essere plasmata in fogge differenti.
Sono molto vecchio, o uomo delle solitudini; molto e molto tempo fa venni su questo pianeta con altri del mio mondo, dal verde pianeta di Yag, che gira ai bordi estremi dell'universo. Abbiamo percorso lo spazio con ali potenti che ci hanno guidato attraverso il cosmo, più veloci della luce, poiché abbiamo combattuto i re di Yag e siamo stati sconfitti e scacciati. Ma non potremo mai ritornarvi perché sulla Terra le nostre ali si sono inaridite e ci sono cadute dalle spalle. Qui ci siamo stabiliti, separati dalla vita terrestre. Abbiamo combattuto le strane e terribili forme di vita che allora percorrevano la Terra, siamo diventati temibili e non siamo mai stati molestati nelle giungle profonde dell'Est dove avevamo trovato la nostra dimora.
Abbiamo visto gli uomini evolversi dalle scimmie e costruire le radiose città di Valusia, Kamelia, Commoria e le loro sorelle. Li abbiamo visti barcollare sotto i colpi dei rozzi Atlantidi, dei Pitti e dei Lemuriani. Abbiamo visto gli oceani alzarsi e inghiottire Atlantide e Lemuria, le isole dei Pitti, e le radiose città della civiltà. Abbiamo visto i sopravvissuti del regno dei Pitti e di Atlantide edificare il loro impero dell'età della pietra e cadere in rovina, stretti in sanguinose guerre. Abbiamo visto i Pitti affondare negli abissi della barbarie, e gli Atlantidi ritornare allo stato scimmiesco. Abbiamo visto i nuovi selvaggi dilagare in ondate conquistatrici dal Circolo Artico verso Sud per costruire una nuova civiltà, con nuovi regni chiamati Nemedia, Koth, Aquilonia e le loro sorelle. Abbiamo visto il tuo popolo risorgere sotto nuovo nome dalle giungle abitate dalle scimmie che una volta erano stati gli Atlantidi. Abbiamo visto i discendenti dei Lemuriani, sopravvissuti al cataclisma, uscire di nuovo dalla barbarie e cavalcare a Ovest, col nome di Hyrkaniani. E abbiamo visto questa razza di diavoli, sopravvissuta a un'antica civiltà che esisteva ancor prima della distruzione di Atlantide, pervenire ancora una volta alla cultura e al potere, in questo maledetto regno di Zamora.
Tutto ciò abbiamo visto, senza aiutare né ostacolare l'immutabile legge cosmica, e ad uno ad uno siamo morti; perché noi di Yag non siamo immortali, anche se le nostre vite sono come le vite dei pianeti e delle costellazioni. Infine, sono rimasto solo io a sognare dei tempi antichi tra le rovine dei templi della perduta giungla del Khitai, adorato come un Dio da un'antica razza gialla. Poi venne Yara, profondo nella nera conoscenza trasmessa lungo i giorni della barbarie, fin da prima che Atlantide affondasse.
Dapprima si sedette ai miei piedi e apprese la saggezza. Ma non era soddisfatto di ciò che gli insegnavo, poiché si trattava di magia bianca e lui desiderava apprendere il sapere malvagio, per rendere schiavi i re e saziare la sua diabolica ambizione. E io non volevo insegnargli nessuno dei neri segreti che avevo appreso senza cercarli, attraverso gli eoni.
Ma la sua conoscenza era più profonda di quanto pensassi; con inganni, appresi tra le oscure tombe della fosca Stygia, mi costrinse a cedere un segreto che non intendevo svelare; e, rivoltando contro di me il mio stesso potere, mi fece schiavo. Ah, Dèi di Yag, la mia coppa è stata ben amara, da allora!
Mi portò via dalle perdute giungle del Khitai, dove scimmie grigie danzavano al suono dei flauti di sacerdoti gialli, e offrivano frutta e vino sui miei antichi altari. Non ero più il Dio del mite popolo della giungla, ero lo schiavo di un Demone in spoglie umane.»
Di nuovo le lacrime sgorgarono dagli occhi senza vista.
«Mi rinchiuse in questa torre che io stesso costruii, per suo ordine, in una sola notte. Mi ha reso schiavo con il fuoco e la ruota, e con strane torture soprannaturali che non capiresti. Durante l'agonia avrei desiderato togliermi la vita, se solo avessi potuto. Ma lui mi teneva vivo... mutilato, accecato, distrutto... per obbedire ai suoi folli ordini. E per trecento anni ho fatto il suo volere, da questo letto di marmo, sporcando la mia anima di peccati cosmici e macchiando la mia sapienza di crimini, perché non avevo altra scelta. Ma non mi ha ancora strappato tutti gli antichi segreti, e il mio ultimo regalo sarà la magia del Sangue e della Gemma. Perché io sento la fine del tempo avvicinarsi. Tu sei la mano del Fato. Te ne prego, prendi la gemma che giace laggiù, su quell'altare.»
Conan si voltò verso l'altare d'oro e avorio, e prese un grande gioiello rotondo, chiaro come cristallo, e capì che si trattava del Cuore dell'Elefante.
«Ora, per la grande, potente magia, quale la Terra non ha mai visto prima e non vedrà più, per milioni e milioni di millenni, magia che evoco nel nome del sangue della mia vita, del sangue nato nel verde ventre di Yag, sospeso sognante e lontano nella grande vastità azzurra dello Spazio.
Prendi la tua spada, uomo, e strappami il cuore; poi spremilo di modo che il sangue scorra sulla pietra rossa. Scendi questi gradini e penetra nella camera d'ebano dove Yara giace, avvolto nei sogni infernali del loto. Pronuncia il suo nome, e lui si sveglierà. Poni la gemma di fronte e di': "Yag-kosha ti manda un ultimo dono e un ultimo incantesimo". Poi allontanati dalla torre rapidamente; non temere, il tuo cammino non incontrerà ostacoli. La vita dell'uomo non è la vita di Yag, e la morte umana non è la morte di Yag. Lasciami uscire da questa gabbia di carne mutilata e cieca e io sarò ancora una volta Yogah di Yag, incoronato dal mattino e radioso, con ali per volare e piedi per danzare e occhi per vedere e mani per spezzare.»
Titubante, Conan si avvicinò, e Yag-kosha, o Yogah, avvertendo la sua incertezza, gli mostrò dove avrebbe dovuto colpire. Conan strinse i denti e immerse profondamente la spada. Il sangue fluì sull'arma e sulla mano e l'essere si contorse una volta, poi giacque tranquillo. Sicuro che la vita fosse volata via, o almeno la vita come lui la conosceva, Conan iniziò il suo macabro compito e rapidamente portò alla luce qualcosa che doveva essere il cuore di quella strana creatura, sebbene differisse curiosamente da quelli che aveva visto. Tenendo l'organo ancora pulsante sopra il luminoso gioiello, lo premette con ambedue le mani e una pioggia di sangue cadde sulla pietra. Con sua grande sorpresa esso non scivolò, ma penetrò nella gemma così come l'acqua viene assorbita da una spugna.
Tenendo cautamente il gioiello, Conan uscì dalla fantastica camera e cominciò a scendere gli scalini d'argento. Non si voltò indietro; istintivamente sentiva che qualche forma di trasmutazione stava avendo luogo nel corpo steso sul divano di marmo, e sentiva anche che non era cosa che dovesse essere spiata da occhio umano.
Chiuse la porta d'avorio dietro di sé e senza esitazioni scese la scala d'argento. Non gli venne nemmeno in mente di ignorare le istruzioni che gli erano state date. Si fermò di fronte a una porta di ebano, che al centro recava un sogghignante teschio d'argento, e la spalancò. Guardò dentro la camera di ebano e giaietto e vide, su un divano di seta nera, una lunga e magra figura reclinata. Yara, il sacerdote e stregone, giaceva di fronte a lui, con gli occhi aperti e dilatati dai fumi del loto giallo: fissava lontano, come perso in precipizi e abissi notturni al di là della comprensione umana.
«Yara!», disse Conan, come un giudice che pronuncia una condanna. «Svegliati!»
Gli occhi si schiarirono immediatamente e diventarono freddi e crudeli come quelli di un avvoltoio. La lunga forma magra rivestita di seta si erse e sovrastò il cimmero.
«Cane!», disse in un sibilo simile alla voce di un cobra. «Che cosa fai, qui?»
Conan posò il gioiello sulla grande tavola d'ebano.
«Colui che ha inviato questa gemma mi ha ordinato di dirti: "Yag-kosha ti manda un ultimo dono e un ultimo incantesimo".»
Yara si ripiegò su se stesso; la sua nera faccia era cinerea. Il gioiello non era più trasparente come il cristallo; le sue profondità tenebrose pulsavano e vibravano, e curiose onde di fumo di cangiante colore passavano sulla liscia superficie. Come se fosse attratto da una sorta di ipnosi, Yara si avvicinò al tavolo e afferrò la gemma, fissando le sue oscure profondità, come se la gemma fosse un magnete che gli succhiasse via l'anima dal corpo. E quando Conan guardò di nuovo, pensò che gli occhi gli stessero giocando strani scherzi. Quando Yara si era levato dal letto gli era sembrato un gigante; adesso la sua testa gli arrivava a malapena alla spalla. Sbatté le palpebre, confuso, e per la prima volta in quella notte dubitò dei suoi sensi. Poi, con una scossa, si rese conto che la statura del sacerdote stava diminuendo... diventava più piccola a vista d'occhio.
Conan osservava la scena con una sensazione di distacco, come un uomo può osservare un gioco; immerso in una sensazione di soverchiante irrealtà, il cimmero non era nemmeno più sicuro della propria identità; sapeva soltanto che aveva sotto gli occhi la manifestazione palese del gioco cieco delle forze Esterne, al di là della sua comprensione.
Ora Yara non era più grande di un bambino; come un infante strisciava sul tavolo, ancora aggrappato alla gemma. Allora lo stregone capì improvvisamente il suo fato e si drizzò di scatto, abbandonando la gemma. Ma continuò a ridursi ancora e Conan vide una figura pigmea che si scagliava selvaggiamente attorno al tavolo, agitando le piccole braccia e strillando con una voce che assomigliava allo stridìo di un insetto.
Ormai si era ridotto a tal punto che il grande gioiello torreggiava su di lui come una collina: Conan lo vide coprirsi gli occhi con le mani, come a proteggerli dalla luce, vacillando come un pazzo. Il cimmero avvertì che una cieca forza magnetica chiamava Yara verso la gemma. Per tre volte Yara le corse selvaggiamente attorno, in cerchi sempre più stretti, per tre volte tentò di voltarsi e correre verso l'altro capo del tavolo; poi, con un urlo che echeggiò debolmente nelle orecchie dell'osservatore, il sacerdote stese le braccia e corse verso il lucente globo.
Chinandosi sulla pietra, Conan vide Yara arrampicarsi sulla liscia superficie curva, assurdamente, come un uomo che scala una montagna di ghiaccio. Poi lo stregone fu in piedi sulla cima, con le braccia ancora levate, invocando orribili nomi che solo gli Dèi udirono. E improvvisamente affondò proprio nel cuore del gioiello, come un uomo affonda nel mare, e Conan vide le onde fumose chiudersi su di lui. Ora Conan lo vide dentro il cuore cremisi della gemma, che era ridiventata trasparente come cristallo: gli pareva una scena lontana, minuscola per la grande distanza. E nel cuore della gemma comparve una radiosa e verde figura alata, con corpo di uomo e testa di elefante, non più cieca e storpia. Yara alzò le braccia e fuggì come fugge un pazzo, e il vendicatore piombò su di lui. Poi, come lo scoppio di una bolla, il grande gioiello svanì in un arcobaleno zampillante di splendori, e la superficie del tavolo di ebano rimase nuda e deserta: nuda - Conan lo sapeva - come il divano di marmo nella camera di sopra, dove il corpo dello strano essere transcosmico chiamato Yag-kosha e Yogah prima giaceva.
Il cimmero si voltò e uscì dalla stanza, imboccando la scala d'argento. Era così confuso che non gli venne nemmeno in mente di lasciare la torre per la via da cui era entrato. Scese per quel tortuoso e scuro pozzo d'argento e arrivò in una grande stanza posta ai piedi dei lucenti scalini. Lì si fermò per un istante; era arrivato nella stanza dei soldati. Vide il luccichio dei loro corsetti d'argento, lo splendore delle else ingioiellate delle spade. Erano seduti alla tavola del banchetto, rovesciati su di essa; i pennacchi neri ondeggiavano tetramente sopra gli elmi che coprivano le teste ripiegate; i dadi e i calici erano caduti sul pavimento di lapislazzuli sporco di vino. Conan capì che erano morti. La promessa era stata fatta e mantenuta; che fosse stata stregoneria, magia o l'ombra delle grandi ali verdi a spegnere la baldoria, Conan non poteva dirlo, ma il cammino gli era stato aperto. Una porta d'argento era spalancata, incorniciata dal biancore dell'alba.

Il cimmero si diresse verso il verde giardino ondeggiante e poi, mentre il vento dell'alba soffiava attorno a lui con la fresca fragranza di crescite rigogliose, si fermò come un uomo svegliatosi da un sogno. Si girò incerto a fissare l'enigmatica torre che aveva appena lasciato. Era stato stregato o incantato? Aveva solo sognato ciò che gli era parso di vivere? E mentre la guardava, vide la splendente torre oscillare nell'alba cremisi, con il bordo incrostato di gioielli che brillava sotto il crescente chiarore, e cadere a terra frantumata in pezzi lucenti.